Intervista a Cristiano Carriero
di Anna Fata
La comunicazione è sempre stata una prerogativa dell’essere vivente, umano e animale. Per l’essere umano, in particolare, è uno tra i bisogni primari legati alla sopravvivenza. Mettere insieme, scambiare informazioni, conoscenze, bisogni, atteggiamenti, emozioni, percezioni tra soggetti coinvolti in un determinato contesto spazio-temporale su tematiche comuni sono i suoi obiettivi ultimi.
Essa implica sempre la presenza minima di due soggetti capaci di trasmettere e ricevere un messaggio, grazie ad un codice condiviso. Si tratta di un processo, una modalità bidirezionale, interazione, condivisione di significati, punti di vista.
Comunicare è mettersi in relazione in cui interagiscono non solo i meri contenuti, ma anche il sistema di valori, i pregiudizi, i vissuti personali, gli stili comunicativi dei soggetti interagenti.
Per comunicare efficacemente occorre essere consapevoli del cosa, come, quando, dove, a chi, perché.
Oggi viviamo nell’era della comunicazione. Disponiamo di luoghi, strumenti, modi, opportunità sconosciute fino ad alcuni anni fa. Quanto ne sappiamo di essi e delle loro potenzialità? Come possiamo avvalercene al meglio, nella vita e nel lavoro? Se e come influiscono sulla nostra vita come persone e come aziende? Quali sono i ruoli e le responsabilità di chi comunica per mestiere? E’ possibile scrivere per vendere e, nel caso, cosa significa?
Di questo e molto altro abbiamo parlato con Cristiano Carriero, Giornalista, Storyteller, Digital PR, Consulente di marketing, Formatore, co-fondatore de La Content Academy e di Martin Brando.
Intervista a Cristiano Carriero
D: Posto l’assunto che non si può non comunicare, se e come fare per diventare più consapevoli dei messaggi che, volenti o nolenti, si trasmettono?
R: Credo che la comunicazione sia fatta di tante cose: di parole, di simboli, di silenzi. Hai pienamente ragione quando dici che non si può non comunicare, un silenzio o una assenza è di per sé un modo do comunicare, un modo di essere o di non esser(ci). Già rendersi conto di questo è molto importante.
Possiamo scegliere di non comunicare, ma che sia una scelta, quella di non trasmettere alcun messaggio. Così come deve essere una scelta quella di pesare le parole, gli aggettivi, e di parlare la lingua del nostro pubblico.
D: Spesso, complice la sovrabbondanza di messaggi e stimoli attuali, le persone sono distratte, confuse, paradossalmente difficili da raggiungere e ancora più arduo è creare una relazione profonda e di lunga durata con loro. Se e come fare per suscitare attenzione, coinvolgimento, partecipazione, emozione nelle proprie modalità comunicative, nella vita privata e nel lavoro?
R: Penso valga la stessa medesima regola della vita. Se siamo in un mercato dove tutti urlano, è difficile che qualcuno presti attenzione a noi. Dobbiamo essere bravi prima di tutto a individuare i luoghi della comunicazione, e in base a questi scegliere come parlare.
È complicato pensare di poter avere un unico stile che va bene ovunque.
Il digital non è molto distante dal mondo reale: se sono in pizzeria con i miei amici userò lo stesso linguaggio che utilizzo con il mio capo a lavoro? No. E se salgo sul palco di una sala con mille spettatori, userò la stessa modalità espositiva di un lettera che scrivo a pochi amici? No. E allora perché utilizziamo le stesse tecniche per le newsletter, per i post su Linkedin, per quelli su Facebook?
Perché noi per primi siamo distratti e andiamo di fretta. Non il pubblico.
D: Nello specifico, in questo contesto comunicativo, come si colloca lo Storytelling, che tanto spazio sembra rivestire attualmente – e non solo come è sempre stato nelle tradizioni antiche, nella vita privata, individuale, sociale, sia orale, sia scritta – nell’esistenza delle persone, delle aziende e dei loro brand?
R: Lo storytelling è un mindset, un modo di pensare prima di tutto. Si dice spesso che vuol dire “comunicare attraverso delle storie”. Vero, ma non deve diventare esercizio di stile, altrimenti è un iperbole.
Mi piace di più pensare che lo storytelling ci aiuta a considerare la comunicazione un grande, enorme, vaso comunicante nel quale i linguaggi si mischiano e persino quello pubblicitario assume dignità. Ecco, questo forse è un particolare del quale pochi parlano.
A che serve sapere di cinema, di letteratura, di cultura pop in generale se poi una pubblicità resta tale? È grazie allo storytelling che i linguaggi si mescolano, e la sospensione dell’incredulità arriva anche lì dove c’è un brand o un prodotto da vendere.
D: Oggi un’altra critica che spesso si rivolge al target delle nostre comunicazioni consiste nella loro scarsa alfabetizzazione linguistica, multimediale, culturale che impedisce loro in parte o in toto di interpretare correttamente e comprendere i messaggi che vengono loro inviati. In questo modo, però, si rischia di deresponsabilizzarsi come comunicatori la cui prerogativa primaria sarebbe quella di farsi comprendere. Se e come un comunicatore può sviluppare al meglio la propria consapevolezza comunicativa e farsi comprendere dal suo pubblico di riferimento?
R: È il rischio di cui parlavo sopra. Se un comunicatore non riesce a farsi comprendere, quasi sicuramente ha sbagliato pubblico. Mi spiego: se uso riferimenti culturali troppo elevati, e il mio è un target più pop, sto sbagliando tutto e sto facendo quell’esercizio di stile di cui sopra.
La prima cosa da fare è ascoltare il pubblico: come parla? Che riferimenti culturali ha? Cosa legge o cosa non legge, che serie TV guarda?
Non sta a noi decidere chi è colto e chi no, quello che per noi può essere poco conosciuto per un determinato tipo di pubblico può essere all’ordine del giorno. Il nostro ruolo, in questo caso specifico, non è quello dei divulgatori. Farsi comprendere è un lavoro complesso, c’è un bellissimo libro di Sorrentino (Hanno tutti ragione) in cui il protagonista dice:
“sui mezzi di comunicazione non c’è da fare troppo gli schizzinosi”.
Ecco, io la penso esattamente così.
D: Tra i bisogni fondamentali di ciascun essere umano vi sono quelli di essere accolto, accettato, approvato, appoggiato e, in ultima analisi, amato. Questo, per certi versi, si può trasferire anche a livello aziendale: le aziende, e soprattutto i loro brand, aspirano all’amore incondizionato, all’identificazione da parte dei loro clienti. Come agire su un fronte comunicativo per raggiungere questi obiettivi?
R: Mi verrebbe da dire: bisogna meritarselo.
E il modo migliore per farlo è raccontare storie mirabili, memorabili, verosimili.
Soprattutto verosimili.
Per cui comunicare è soprattutto agire. Non è più tempo di facili propagande: oggi comunicare vuol dire attuare, è una sorta di promessa che faccio al mio pubblico; ed è qui che il suffisso – azione diventa parte integrante della parola comunicazione.
D: Le aziende per proliferare e restare sul mercato hanno bisogno di guadagnare, vendendo prodotti e servizi. Attualmente sembra andare molto “di moda” lo scrivere per vendere. Se e in che modo si può comunicare per conseguire questo fine?
R: Su questo sono un po’ integralista e ti chiedo scusa. So anche che mi farò dei nemici: per me scrivere per vendere non esiste.
Si può scrivere per convincere, per persuadere, per creare una forte empatia che porti le persone a desiderare una certa cosa. Se intendiamo questo, siamo d’accordo.
Se parliamo di copy finalizzati alla vendita c’è un solo pubblico che li ama: i venditori. Con questo non voglio dire che lo storytelling sia qualcosa di astratto, tutt’altro.
Da sempre scriviamo per convincere qualcuno. Scriviamo lettere d’amore per far sì che qualcuno senta la nostra mancanza, e ricambi il nostro amore. Scriviamo mail per convincere il nostro capo che il nostro lavoro è stato fatto bene, oppure scriviamo ad un cliente per presentare un progetto e convincerlo ad affidarcelo.
Non stiamo forse vendendo qualcosa? Il modo migliore per farlo è sempre quello di creare un legame fortissimo con il destinatario attraverso le parole.
D: Quando, alcuni decenni fa, fecero la loro prima comparsa Internet, il Web, e successivamente i Social network, si concepiva questo mondo in modo per certi versi parallelo a quello offline. Oggi tale distinzione non è più possibile, ma si assiste sempre più ad una osmosi tra online e offline. Se e come avvalersi al meglio sul fronte comunicativo, sia personale, sia aziendale, di queste opportunità?
R: La prima e più importante cosa da fare è considerare l’online parte della nostra esperienza quotidiana. Viviamo, condividiamo emozioni, pensieri, ci scambiamo voci, immagini, messaggi, ci guardiamo negli occhi anche grazie a delle webcam, comunichiamo in maniera sincrona e asincrona, in osmosi come dici tu.
Lo chiamano phygital ed è sicuramente una tendenza che la pandemia ha accelerato ancora di più, abbattendo anche il confine – fin troppo marcato – tra diverse generazioni. Forse è davvero l’ultima occasione per cogliere questa opportunità. Non penso ce ne sarà un’altra.
D: Se una persona volesse intraprendere la professione del comunicatore, che consigli ti sentiresti di offrire per la sua formazione ed esperienza?
R: Non pensare alla comunicazione come a qualcosa di distinto e differenziato rispetto alla scrittura, alla lettura, alla cultura in generale. La comunicazione – come dice Roberto Olivi – è un posto dove ci piove dentro.
Se dovessi dare un consiglio più pratico direi: scrivete tanto, leggete di più, tenete una passione accesa anche “fuori” dal marketing. A volte le contaminazioni sono preziosissime, ecco perché continuo a scrivere racconti, articoli, storie anche quando smetto di scrivere per lavoro.
D: Infine, per concludere, che scenario possiamo delineare per la comunicazione da qui ad una decina di anni, sia per le persone, sia per le aziende?
R: Qui ci vorrebbe un indovino, ma ci provo. Credo che l’anno appena trascorso ne contenga già dieci in sé, per l’accelerazione di cui ti parlavo sopra. Di sicuro la comunicazione assumerà ancora più importanza e non solo a livello di messaggio scritto. Ma anche a livello di voce – vedi l’esplosione di Clubhouse e in generale dei podcast – e in generale di postura, basti pensare alle mille call che facciamo con Zoom e simili: il timing di intervento, il saper guardare dentro la videocamera e tutto il mondo del paraverbale assume un’importanza nuova.
Alle aziende è chiesta sempre più trasparenza, così come alle persone. Mi piace pensare che non sentiremo più dire “ne dobbiamo parlare di persona”, proprio perché lo sforzo più grande dovrà essere quello di farsi capire anche online. Che poi, sempre di persona è.
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